
Luca De Meo, 58 anni - ANSA
L’addio di Luca de Meo alla Renault rischia di scrivere la parola fine a qualcosa di più grande. Perché quando il più bravo se ne va, di solito i nemici e gli invidiosi festeggiano. In questo caso invece, perdono tutti. Perde l’automobile, e perde sopratutto la speranza che un intero sistema industriale logorato dalle decisioni della politica possa risollevarsi se anche l’uomo più capace ha deciso di arrendersi.
La notizia, ufficializzata nella tarda serata di ieri, è che il manager italiano dal 15 luglio non sarà più l’amministratore del Gruppo automobilistico francese, ruolo di ricopriva dal 2020. De Meo si è dimesso – come ha annunciato con un comunicato il consiglio di amministrazione di Renault – “per affrontare nuove sfide al di fuori del settore”. Secondo indiscrezioni di Le Figaro, dovrebbe diventare direttore generale del Gruppo francese del lusso Kering, quello che possiede e gestisce marchi come Gucci, Balenciaga, Saint Laurent, Boucheron e Pomellato.
Moda e gioielli, dunque, anziché ruote e motori elettrici, con questi ultimi che stanno purtroppo rappresentando l’inizio della fine. De Meo, 58 anni appena compiuti, non lascia solo un’azienda che in pochi anni ha risollevato grazie a un piano lungimirante e coraggioso: in realtà si arrende alla constatazione che l’automobile non possa liberarsi dalle catene di chi l’ha ridotta così, in nome di un finto ecologismo all’europea che ha stritolato i suoi programmi con un passaggio traumatico e senza alternative all’elettrificazione, rendendo di fatto oggi un lusso per pochi quello di acquistare una vettura nuova, con qualunque motorizzazione possegga.
Il messaggio è desolante, e la sua uscita di scena più che preoccupante: toglie al settore un professionista dotato di idee, che ha fatto bene ovunque sia stato. Dopo i successi in Fiat dove fu il pupillo di Sergio Marchionne, proprio Renault è stata il banco di prova migliore delle sue capacità. De Meo vi approdò nel luglio di cinque anni fa, ereditando un Gruppo allo sbando e vicino al fallimento, che produceva 8 miliardi di euro l’anno di passivo. Ci arrivava forte di esperienza importanti, e tutte coronate da successo: a lui si deve il rilancio della Fiat 500 nel 2007, e successivamente il riassesto della spagnola Seat del Gruppo Volkswagen che gli aveva fruttato una rapida ascesa nel board dirigenziale di Audi in Germania. Esperienza, carattere, decisioni forti e un programma a medio periodo chiamato “Renaulution” che puntava sul valore del marchio anziché sui volumi, hanno ribaltato il destino di Renault che a fine 2024, in netto anticipo sulle previsioni, ha consegnato quasi 1 milione e 600 mil macchine, sfornato decine di nuovi modelli, rimesso a posto i conti con un utile netto di oltre 1 miliardo di euro, e consentito che le fabbriche del Gruppo tornassero a lavorare al meglio delle loro capacità produttive.
Da presidente dell’Acea, l’associazione dei costruttori, ruolo che aveva accettato dopo l’acclamazione generale che lo aveva eletto, De Meo ha provato a dialogare con le istituzioni europee da dentro il sistema, portando avanti le ragioni di un pragmatismo molto concreto e poco ideologico, senza opporsi alla svolta elettrica che anzi Renault ha portato avanti con più convinzione di tutti, ma evidenziando dati di fatto, industriali e di mercato che suggerivano (e ancora lo fanno) passi graduali e scelte in favore di chi le auto le deve comperare e non subire, e che questa transizione non è in grado ancora di sopportala economicamente. L’ultimo appello nel suo ruolo di difensore del sistema delle quattro ruote è stato quello di rilanciare pochi mesi fa l’idea di una sorta di “Airbus dell’auto”, una produzione comune cioè di macchine di taglia ridotta fra i costruttori europei, che permetta di ridurre oneri di sviluppo di modelli piccoli, economici, e a zero emissioni e puntare più velocemente alla sostenibilità. “Serve un grande lavoro di squadra”, diceva. Ieri invece, forse sconfortato e allettato da un altro campionato meno condizionato dall’esterno, è uscito dal campo.