
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa - Fotogramma
«La situazione a Gaza è…». Il cardinale Pierbattista Pizzaballa si ferma un istante per trovare l’aggettivo adatto. «Il fatto è che le parole non riflettono la gravità della situazione sotto ogni punto di vista». In questi giorni di raid massicci sull’area di Gaza City, il Patriarca di Gerusalemme riceve sempre più spesso telefonate allarmate dalla parrocchia della Sacra Famiglia, situata nel quartiere di Zeytun della capitale della Striscia. Dei mille fedeli che si erano rifugiati all’inizio del conflitto ne sono rimasti 54. Insieme ai tre sacerdoti, le cinque religiose e un centinaio di bimbi disabili assistiti da queste ultime, cercano di sostenersi a vicenda. «Le bombe cadono nei paraggi e, ogni volta, le pareti tremano. Agli abitanti dei dintorni, poi, arrivano ordini di evacuazione. Sono spaventati. E, così, mi chiamano: è l’unico modo che hanno di condividere con qualcuno quanto stanno vivendo», racconta il cardinale.
La voce è, come sempre, pacata ma nel tono si percepisce il dolore accumulato in ventuno mesi di guerra. Seicentotrentasei giorni in cui Gaza e l’intera Terra Santa sono state dilaniate. «La Cisgiordania ormai è un Far West dove i coloni fanno quel che vogliono. Si sentono così intoccabili da attaccare perfino l’esercito. Alla violenza, poi, si somma la povertà crescente. Anche nei Territori c’è la fame. Non perché manchi il cibo – a differenza della Striscia – ma perché non ci sono i soldi per comprarlo».
Secondo alcuni analisti, l’escalation sarebbe il preludio di un cessate il fuoco. Ci sono segnali, anche a livello internazionale si aprono spiragli. Ci sarà finalmente pace?
Pace è una parola impegnativa. La userei con parsimonia: dato il carico enorme di odio, di sfiducia, di rancore, parlare di pace mi sembra prematuro. Ora dobbiamo lavorare per crearne le condizioni. Aprire percorsi che conducano alla pace. Il primo passo è il cessate il fuoco. Le parti starebbero mostrando maggiore flessibilità. Il condizionale, però, è d’obbligo, non è la prima volta che salta tutto all’ultimo. Poi si dovrà costruire il dopo. Al momento non si capisce quale sia il progetto, questo rende così difficile finire la guerra.
L’Amministrazione Trump pensa a un piano regionale di normalizzazione tra Israele e gli altri Paesi della regione…
Su questa idea pende, come una spada di Damocle, la questione palestinese. Se non la si risolve, tutto sarà terribilmente fragile.
La soluzione sono i due Stati?
È quella ideale, ma ora Israele la rifiuta. Va trovata una formula creativa.
Che contributo può dare la Chiesa per aiutare a immaginare il futuro?
La grande sfida è creare, poco alla volta, una narrativa diversa da quella attuale, esclusiva e escludente, che disumanizza l’altro. I cristiani devono essere capaci di proporre un linguaggio alternativo, di reintrodurre nel dibattito pubblico parole come persona, dignità, rispetto, ascolto. Termini, forse, banali ovunque. Ma non da queste parti. La Chiesa non può fare da sola questo lavoro: deve coinvolgere tutte le altre fedi e collaborare con le tante organizzazioni e i movimenti per il dialogo presenti e vive nelle società israeliana e palestinese.
Ha parlato di mancanza di cibo nella Striscia di Gaza. Gli aiuti umanitari continuano a scarseggiare?
Nel nord, con cui sono in contatto costante perché là si trova la parrocchia, la gente è allo stremo. E spostarsi nel sud è un rischio mortale. Arriva pochissimo, attraverso alcune organizzazioni.
La Sacra Famiglia quando ha ricevuto gli ultimi aiuti?
L’ultimo giorno del cessate il fuoco, il 18 marzo.
E poi?
Hanno fatto le formiche.
Che cosa intende?
Hanno accumulato delle scorte durante il periodo di tregua. E, centellinandole, sono riusciti ad andare avanti. E ad aiutare i vicini: nel terreno di fronte alla parrocchia è stato allestito un gabbiotto in cui il cibo – in scatola ovviamente, frutta e verdura non si vedono da tempo – viene distribuito alle persone dei quartieri limitrofi. Non si riesce, però, a raggiungere tutti. Ora, poi, le riserve stanno finendo. La settimana scorsa sono arrivati 19mila pacchi: niente, rispetto alle necessità.
Quando parla con la parrocchia, cosa la colpisce di più?
La capacità di continuare comunque a organizzare attività pastorali, formative, educative. Di non fermarsi. E mi colpiscono i bambini: ce n’è un centinaio, di cui tre nati durante la guerra. Giocano sempre. Non so come riescano a farlo.