giovedì 26 giugno 2025
Il 26 giugno 1945, 80 anni fa, veniva firmata la Carta delle Nazioni Unite. Oggi sono necessarie riforme radicali per rilanciare un modello capace di riproporre un multilateralismo realmente inclusivo
Sì, l’Onu può essere ancora in grado di fermare le guerre

ANSA

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Negli attuali scenari di guerra è difficile commemorare quel 26 giugno 1945 in cui i rappresentanti di 50 Stati riuniti nella Conferenza di San Francisco approvarono la Carta delle Nazioni Unite. La prospettiva di una governance istituzionale come l’Onu era una speranza rispetto ai due tentativi che avevano cercato di mettere al bando la guerra: la Signature du pacte gènèrale de renonciation à la guerre, ovvero il Patto di Parigi del 1928 sottoscritto dal ministro degli esteri francese Aristide Briand e dall’omologo americano Frank Kellog, e la Società delle Nazioni del 1919 voluta dal presidente Thomas Woodrow Wilson.

Oggi anche il modello onusiano è in crisi: le guerre in Ucraina, a Gaza e ora in Iran – insieme ad almeno altri 50 conflitti censiti nel mondo – sono solo gli ultimi fallimenti dell’Onu che non ha evitato la guerra fredda, i conflitti della decolonizzazione, l’unilateralismo americano dopo il crollo dell’Unione sovietica, e ora il disegno revisionista dei «nuovi imperi»: la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping e gli Stati Uniti di Trump.

Tuttavia i giudizi critici sull’Onu soddisfano anche un’accusa di comodo ad uso di leader e diplomatici «privi di cultura storica» (Anne-Cécile Robert, Le défi de la paix, 2024), e inadeguati rispetto a quanti nel passato infondevano una visione “etica” delle relazioni internazionali.

Il modello onusiano è anche un sistema di valori e istituzioni che ha avuto i suoi meriti: le soluzioni a guerre dimenticate, l’affermazione politica e giuridica dei diritti umani, le strategie contro l’espansione del terrorismo e la radicalizzazione, gli scambi dei prigionieri di guerra, l’accoglienza per i rifugiati, i vaccini e gli aiuti umanitari, la non proliferazione, e – sino ad ora – 80 anni senza una terza guerra mondiale. È vero che il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza in molti casi blocca Risoluzioni importanti con valore vincolante, ma di fronte alle grandi crisi l’Onu si è comunque espressa con larghe maggioranze delle 193 Nazioni rappresentate nell’Assemblea Generale.

Questa e anche altre istituzioni dell’Onu – la Corte internazionale di giustizia, il Consiglio per i diritti umani, e l’Alto commissario per i rifugiati – hanno sempre indicato la strada: nonostante i veti di Russia o Cina, l’Assemblea generale, a maggioranza, ha chiesto il cessate il fuoco e dichiarato illegittima l’aggressione all’Ucraina, e nonostante i veti degli Usa la condanna non è mancata nemmeno per Israele, per gli abusi sulla popolazione palestinese. Lo stesso Consiglio di Sicurezza ha più volte ribadito Risoluzioni che sanciscono il principio “Due popoli due Stati”, oggi disconosciuto da Israele. Dunque l’impegno delle Nazioni Unite non è mancato: il problema sta nell’attuale visione politica degli Stati che hanno rinunciato ai principi fondativi della Carta.

Occorre perciò interrogarsi se ci sono reali alternative a quei principi e a quel sistema. Con la Carta si inaugurava un modello inclusivo di Nazioni eguali, libere e indipendenti: non sarebbero state più consentite “guerre di conquista”, l’uso della forza è bandito nelle controversie internazionali ed è ammesso solo in self-defence con l’avvallo del Consiglio di Sicurezza e un dovere di solidarietà degli Stati nella “legittima difesa collettiva”. È illegittima qualsiasi “aggressione” alla integrità territoriale e alla sovranità degli Stati. Lo statuto dell’Onu prevede dunque procedure e organismi per la risoluzione pacifica delle controversie, attraverso mediazioni, arbitrati e la Corte internazionale di giustizia.

All’interno delle stesse Nazioni Unite ci si interroga sul disegno revisionista dei nuovi imperi: si discute di riforme per rendere l’Onu più rappresentativa dei 193 Stati, svincolandola dal potere di veto dei P5, i cinque membri permanenti ancora rappresentati da Usa, Cina, Federazione Russa, Gran Bretagna e Francia. L’Italia con l’iniziativa Uniting for consensus punta a un allargamento del Consiglio di Sicurezza con rappresentanti di Gruppi regionali, tra cui l’Unione Europea e il Global South. Tuttavia, perché l’Onu sia capace di fermare le guerre la nostra idea è promuovere progetti radicali di riforma. Ci uniamo alle proposte degli internazionalisti Oona A. Hathaway e Scott J. Shapiro (autori del monumentale The Internationalist) e ad alcuni spunti recenti di studiosi italiani come Antonio Padoa-Schioppa (Destini incrociati) e Luigi Ferrajoli (Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale).

Occorrono l’eliminazione del veto, l’astensione per chi è parte in causa (come la Russia, per l’aggressione all’Ucraina), una Assemblea Generale elettiva con una rappresentanza di parlamenti nazionali (non solo dei governi), comunità religiose e ong indipendenti “difensori dei diritti umani”, nonché il riconoscimento del valore vincolante per le Risoluzioni approvate a maggioranza qualificata in “sessioni straordinarie” dell’Assemblea Generale.

Quest’ultima soluzione non è irrealizzabile: si è già compiuta con la Risoluzione Uniting for Peace quando, nonostante l’immobilismo del Consiglio di sicurezza, si riuscì a fermare la guerra di Corea nel 1950. La riforma delle Nazioni Unite è una scommessa su cui puntare, perché il modello rimane valido per un multilateralismo realmente inclusivo. È importante anche il racconto: se media e opinion leader ci abituano solo al linguaggio della geopolitica e delle armi, occorre la forza morale del diritto internazionale per ricomporre un momento fondativo di civiltà.

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